Come vada giocata una finale di tennis a Roma, non credo in molti siano in grado di spiegarlo. Neanche chi ha avuto in sorte di giocarla davvero, in tempi più o meno lontani. Salvo rifarsi a consigli generici, utili al tennis come a ogni altro sport. Divertiti, tieni bassa la pressione, attieniti al piano di gioco, credici fino in fondo. Venerdì sera, quando la riscossa di Sinner ha cominciato a prendere forma, sul 3-0 del secondo set in suo favore, e Paul dava i primi segni di stordimento dopo aver condotto il gioco nel primo set, una voce dall’alto della tribuna non ha potuto fare a meno d’intervenire: «Daje Tommy, che te c’ha fatto crede». Infida è dir poco, come si vede, perché sotto mentite spoglie. Un finto sostegno all’americano, per dirgli che tutto ciò che aveva fin lì ottenuto, era stato gentilmente offerto dall’altro. La città mescola umori antichi e frenesie moderne, ma resta la figlia di Pasquino, e se una signora tarda a mettersi in movimento quando scatta il semaforo, è facile che una voce da dietro le ricordi, «a signò, che ‘n te piace er punto de verde?».
Roma, a ggente, il suo popolo, non ha mai rinunciato a sentirsi protagonista. Basta non esagerare. Ma è nel suo dna essere parte in causa di un evento, così come per i romani sentirsi cittadini del mondo, ad honorem, anche chi il mondo non l’ha mai visto. È la quarta finale che seguo con un italiano protagonista, da quando ho cominciato a scrivere di tennis, nel 1976. Ma le prime tre videro in campo due romani, ed era tutto diverso, Panatta (1976 e 1978) e Zugarelli (1977) erano i figli dei romani che facevano il tifo per loro. Stavolta, l’italiano viene dai monti di Sesto Pusteria, da un piccolo paese, ma è il numero uno, il più forte fra tutti. E ha saputo presentarsi con una bella frase: «Roma è sorprendente, oggi mi sono allenato in uno stadio che conteneva cinque volte gli abitanti del paese in cui sono nato».