È curioso il tennis, sembra spesso uguale a se stesso e dà l’idea che molti dei suoi protagonisti appartengano alla stessa filiera, quasi fossero stati cresciuti dalla mano di un unico coach, eppure sul campo i match assumono spesso coloriture diverse e i risultati danzano come pop corn in una casseruola arroventata, anch’essi all’apparenza tutti uguali, in realtà ognuno diverso dall’altro. È successo anche a Roma, e sono convinto che ci avete fatto caso. Tommy Paul ha rifilato un 5-0 a Sinner prima che il numero uno si riprendesse la scena, e se qualcosa del genere era già successa negli ottavi degli ultimi US Open, con l’americano avanti di due break nel primo set, prima di essere raggiunto, questo non ha impedito a chiunque conosca un po’ più da vicino il tennis dello statunitense di pensare che Paul non sembrava lui, ma un altro, uno capace di giocare un tennis diverso dal solito.

Il ritorno al tennis

È con queste alterne vicende che Sinner si è dovuto misurare nel suo ritorno al tennis, ed è proprio il fatto di essere stato in grado di razionalizzarle da subito, trovando dentro di sé le motivazioni e le spinte agonistiche per appianarle, ad aver sorpreso tutti. Dopo tre mesi di stop non si arriva in finale in un Masters 1000. È un’impresa. E quei pochi che ci sono riusciti hanno nomi che ancora oggi impongono di essere trattati con la deferenza che spetta a chi ormai si è trasferito nel mito. Federer rientrò agli Australian Open del 2017 dopo sei mesi di fermo obbligato, e vinse il torneo, vinse Indian Wells e Miami, poi conquistò anche Wimbledon. Nadal nell’anno di grazia 2013 rientrò dopo sette mesi, fu finalista Vina del Mar, vinse a Sao Paulo, Acapulco e Indian Wells.