Condannato per non aver commesso il fatto. Ma libero! Finalmente libero di godere appieno ciò che più gli piace, giocare a tennis, e se possibile giocare per vincere. Libero anche di impiparsi dell’ultima rimanenza di perfidia che potrà somministrargli Kyrgios – il più autentico interprete, nel tennis, di una visione del mondo “down under”, a testa in giù – nelle sue sempre più livide esternazioni. “Giustizia l’è morta” twitta l’australotennista, ben sapendo che il suo primario divertimento – l’attacco al Grande Peccatore italiano – potrà durare ancora per poco, e lui dovrà cercare in fretta altri bersagli per proseguire la strenua caccia ai “like”. Jannik si affranca da tutto ciò, favorendo un colpo di spugna che spazza con una sola passata malpensanti e malelingue, accusatori incapaci di capire che cosa stanno blaterando e annebbiati difensori dei diritti sbagliati, quelli che il buon Christopher Eubanks, l’unico tennista che abbia partecipato allo stage dell’Atp sulla vicenda Clostebol, ha accomunato in una domanda… «Ma hanno letto gli atti del processo Itia a Sinner? Temo di no. Lo facciano presto. Eviteranno di continuare a dire falsità sul numero uno».
Un patteggiamento che decreta un pareggio
Ma se non riuscite ancora a spiegarvi i perché di un patteggiamento che decreta esattamente ciò che il tennis per sua natura non prevede, il pareggio, vale la pena di prendere atto di un passaggio tratto dalle poche dichiarazioni rilasciate in merito da Jannik. «Questo caso mi perseguitava da quasi un anno, il processo era ancora lungo e la decisione sarebbe stata presa forse solo alla fine dell’anno. Ho sempre accettato di essere responsabile della mia squadra e mi rendo conto che le regole sono un’importante protezione per lo sport che amo. Su questa base ho accettato l’offerta della Wada di risolvere questo procedimento sulla base di una sanzione di tre mesi». Dunque, il processo non si sarebbe esaurito nella “due giorni” (16-17 aprile) fissata dal Tribunale Arbitrale dello Sport a Losanna. Sinner è stato istruito in merito dai suoi avvocati, e ha capito che pur di portarlo all’esasperazione, la vicenda sarebbe proseguita per mesi e mesi tra ostentati silenzi e improvvise sortite architettate per ribadire i meriti della Wada. Ha capito anche che l’accusa intorno alla quale si è arroccato con furbizia il carrozzone burocratico più importante nella lotta al doping, sarebbe stata di difficile ammorbidimento in un processo nel quale non si sarebbe discusso dell’innocenza di Sinner, da tutti accettata (Wada compresa), o dell’impossibilità di definire dopato un atleta trovato positivo a un miliardesimo di grammo di una qualsivoglia sostanza dopante, ma del mancato controllo del proprio team.