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“Eravamo io, Gianni Minà, Vilas, Renzo Arbore e Mina”

Adriano Panatta racconta l’unico giornalista che ammetteva a bordo campo: “Un altro l’avrei preso a racchettate in testa... Grazie a lui ho intervistato anch’io Fidel!”

Era il mio amico invisibile. Ma lui c’era. E dato per scontato questo, si poteva venire a patti con tutto. Dov’è Gianni? Dietro la panchina, sul campo. E che ci fa? Sto giocando una finale diosanto… Anzi, la Finale, la prima dei tre desideri che avevo espresso a Barbetta, altro mitico personaggio del c’è e non c’è, ma è meglio che ci sia. Roma, Parigi e la Davis. Barbetta era l’entità suprema di tutto, forse era Lui in persona, ma papà Belardinelli lo chiamava così, e noi, bravi ragazzi di Formia, i conti li facevamo con Belarda, prima di tutto. Poi anche con Barbetta, ci mancherebbe altro… Ma era la Finale di Roma, e Gianni Minà che ci faceva lì? Si era intrufolato, altra dote che possedeva e che dispensava in mille forme artistiche. Era entrato in campo durante una pausa del gioco e si era nascosto dietro la mia panchina.  

L'aneddoto di Roma

L’ultima cosa che ti aspetti, mentre giochi una finale degli Internazionali? Sentire una voce che ti chiede come va. Non una voce indistinta tra quelle del pubblico, macché, era una voce lì dietro, a un passo. Mi fece sobbalzare? Fosse stato un altro gli avrei dato una racchettata in testa. Ma era Gianni, e con Gianni come potevi? Era una persona amichevole, che ti metteva a proprio agio. Nelle interviste ti sembrava di chiacchierare con un amico, e lui era proprio questo. Un amico. Così, eccolo dietro la panca che mi chiede come sta andando, che era di suo qualcosa di sconvolgente perché i pensieri di chi affronta una finale, in momenti come quelli, guizzano tra passato e futuro, ma non tengono conto del presente, che è lì impresso sul tabellone segna punti. Si pensa a come è stato giocato un colpo, se una certa tattica stia dando i frutti sperati, e a come cambiare o proseguire nei game a venire. E invece, Gianni era lì dietro la panca e mi chiedeva, ehi Adriano, come va? Credo che gli risposi qualcosa del tipo «boh? Insomma… Va!». Poi gli detti il punteggio. E lui mi fece la domanda delle cento pistole. E ora? Era scaduto il minuto del cambio di campo. Impapocchiai un impareggiabile, «e ora si torna a giocare». Poi lo vidi armeggiare dietro la panca di Guillermo e mi venne da sorridere, perché Vilas – con cui ci si voleva un bene da matti – mi guardava strabuzzando gli occhi, come a chiedermi «che faccio con questo qui?». Anche io gli risposi con uno sguardo, «bello mio, sei a Roma, ma che pretendi?». 

L'intervista durante la finale

Gianni Minà era l’unico che potesse fare qualcosa del genere, l’unico cui potesse venire lo schiribizzo di farlo, l’unico al mondo che vi sia riuscito. Entrare in campo con il microfono durante una finale, per intervistare i protagonisti di un match non ancora terminato… Lo si è visto una sola volta nella storia del tennis. Quella! Ma l’amico invisibile era anche l’amico concupito, perché era il miglior antidoto contro lo stress, contro la noia. Conosceva tutti, e già sapevi che avrebbe conosciuto anche quelli di cui si sarebbe parlato di lì a poco o di lì a molto. Concetto che Fiorello tradusse in uno dei più azzeccati cult radiofonici, quello dell’eravamo io, Bob De Niro, Fidel Castro e Gabo Marquez, al quale di giorno in giorno se ne aggiungeva uno, da Ivan Pedroso a Paco Peña, fino a Carlo Croccolo. «Io vulisse avé l’aggenda e’ Minà», diceva Troisi, al quale Gianni voleva un bene profondo. Concupito e indispensabile, Gianni, perché ti descriveva le persone che aveva conosciuto, e non era davvero come ascoltare un elenco delle presenze, il c’era questo e c’era quello, ma un modo per togliersi l’uzzolo di sapere com’erano davvero quei “grandi” che sarebbe stato difficile conoscere.

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