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Olimpiadi, la diplomazia del taekwondo e la leggenda della Corea unita

EPA
Il nostro diario quotidiano dalla Corea, un racconto diretto di quanto sta accadendo a PyeongChang

C’era una volta la diplomazia del ping-pong, adesso siamo passati a quella del taekwondo, in attesa che l’hockey ghiaccio femminile scaldi il cuore di Donald Trump, il presidente americano rimasto ai margini (e dicono sempre più contrariato) della nuova politica coreana che si sta giocando a queste Olimpiadi di PyeongChang. Mentre la buon’anima del Barone De Coubertin sta ballando un hip hop scatenato alla visione della stretta di mano tra Yo-Jong, la sorella del dittatore nordista Kim Jong-Un, e il presidente sudista (parliamo sempre di Corea, tranquilli), alla cerimonia d’apertura dei Giochi (seguita ieri da un invito a Pyongyang: anche i nomi dicono che si tratta più o meno della stessa cosa, forse), a Casa Italia è andato in scena un altro spot del must di questo inizio 2018: la Corea unita.

Niente neve, niente ghiaccio, nella magnifica club house del golf locale, per due settimane l’ombelico del mondo azzurro a cinque cerchi, il presidente della federazione italiana Angelo Cito è riuscito a mettere insieme una delegazione di atleti sud e nord coreani dello sport nato proprio al di sopra del 38° Parallelo. «Siamo tutti coreani, guardate le nostre facce, vi sembrano diverse?» afferma Ri Yong Song, presidente dell’Itf, la federazione internazionale “tradizionalista” e quindi nordista, non riconosciuta dal Cio e con sede a Vienna. I numerosi membri della security lo seguono e lo fanno parlare poco. Come gradiscono poco l’intrattenersi con i giornalisti del collega “sudista” della WT, Choue Chung Son: «Il nostro motto è che la pace è molto più importante delle medaglie».

Il padrone di casa Giovanni Malagò sorride: «E’ un miracolo, siamo riusciti a riavvicinare due mondi che parevano lontani». Peccato che l’esibizione (spettacolare) coinvolga i 13 atleti sudcoreani e non i 2 nordcoreani (la 27enne Ri Sukh Yang («sono emozionata») e Kim Gwang Ju («sono contento»), rimasti a guardare. Ma forse essere davvero uniti era chiedere troppo. E le leggende si costruiscono anche così. Senza contare che di questi tempi è già tanto.

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