INVIATO A MONTECATINI - «Grande, grandissima soddisfazione. E tanta emozione. Sono onorato. Il premio Maestrelli alla carriera di giocatore rappresenta per me un attestato splendido, dedicato alla memoria di un bravo giocatore e di un ottimo allenatore che ricordo benissimo. Tra qualche settimana compirò 75 anni e questa sorpresa è stata un bellissimo regalo di compleanno anticipato».
Un regalo meritatissimo, Pulici.
«Essere premiato dopo tanti anni per ciò che ho seminato dà veramente una soddisfazione enorme. In questo caso persino doppia in quanto il premio non mi arriva da qualche pianeta granata: i tifosi del Toro hanno sempre un occhio di riguardo per me… Ringrazio gli organizzatori, la giuria. E aver potuto ritirare il premio qui a Montecatini con mia moglie Claudia al fianco è stato ancor più emozionante: lei è la mia vita e senza di lei non sarei arrivato dove sono arrivato. Senza Claudia e senza i tifosi granata non sarei diventato Pupi. Per cui dedico il premio a lei, a nostra figlia Patrizia, a mio papà Silvio che mi fece diventare uomo vero, ai tifosi del Toro, al mio capitano per sempre Giorgio Ferrini e a Oberdan Ussello, il mio allenatore nel vivaio granata, un secondo padre. Mi svezzò lui prima che i compagni mi mandassero al diavolo, anni dopo».
Cioè? Questa è nuova.
«Stavo scherzando. Però effettivamente qualcuno mi faceva la battuta: “Paolo, non vale, tu sei aiutato da tutto il Comunale, quando scatti ti spingono 60 mila tifosi…”. Comunque sia, è vero che in base ai cori della Maratona avevo la percezione di dove mi trovassi in campo, se tenevo la testa bassa o ero bloccato in una mischia. Quel gol a Zoff in pallonetto dopo una fuga infinita lo segnarono anche i tifosi: correvo, correvo, e da dietro la Maratona mi spingeva».
La Maratona ha perso poco tempo fa uno dei suoi storici numi tutelari, Ginetto Trabaldo, il fondatore dei Fedelissimi.
«Notizia tristissima, sì. Eravamo tutti legati a Ginetto. Anche riconoscenti. Lui e Maso quasi mi obbligarono a esultare con le braccia tese verso il cielo e i pugni chiusi. Mi dicevano: “La mano aperta non fa male, il pugno sì. E tu, Pupi, sei un simbolo di forza in cui noi ci identifichiamo. E se alzi le braccia così, idealmente saluti tutti i tifosi allo stadio”. Rispettai la regola. Anche perché era bellissima. Ogni mio gol era per i tifosi. Correvo più forte grazie a loro».
A proposito di corse. A 16 anni fece un provino per l’Inter. Ma Helenio Herrera la bocciò.
«Mi disse che dovevo fare il centometrista e non il calciatore: “Vai troppo veloce per giocare a calcio”. Ora immaginate che soddisfazione provai il 6 aprile del ’69: e dovevo ancora compiere 19 anni. La data è stampata nel cuore. Il mio primo gol in A. Con la maglia del Toro. A San Siro. E proprio contro l’Inter, anche se Herrera non era più il loro allenatore. Una rivincita pazzesca».
Aveva esordito contro il Cagliari, in precedenza.
«E Gigi Riva, entrando insieme in campo, mi disse: “Sei cresciuto come me nel Legnano, e chi esce dal Legnano non può avere paura . Allarga le ali e vola”. Che cuore che aveva il grande Gigi!».
Due scudetti Primavera in granata, le Coppe Italia del ’68 (da aggregato in prima squadra) e del ’71, lo scudetto del ’76, tre titoli di capocannoniere e 172 gol fino al 1982: nessuno ha segnato più di lei in 119 anni di Toro.
«Cinto Ellena, che aveva un gran fiuto, credette in me e anche grazie a lui arrivai al Toro. Poi Ussello mi trasformò in un giocatore vero, in quei 18 mesi di vivaio. Fu tutta bravura sua. Un maestro con l’anima di un padre. Un giorno qualcuno in sua presenza mi stuzzicò perché non avevo ancora segnato in prima squadra, e lui replicò subito: “Non toccatemi Paolino perché è imbattibile”. E io: imbattibile, mister? E lui: “Trovami un altro come te capace di segnare 120 gol in 18 mesi tra campionati e tornei vari, giocando al sabato con gli Allievi o la Berretti e alla domenica con la Primavera”. Quel qualcuno gli parlò sopra, non voleva crederci. Neanche io, peraltro: mi parevano troppi 120 gol. Ma poi Ussello ci mostrò una sua cartella in cui teneva catalogato tutto… e ci dimostrò che effettivamente avevo segnato così tanto, in un anno e mezzo».
Sulla soglia dei 18 anni lei al Fila si allenava sia nel vivaio sia con i grandi. Anche lo stesso giorno, tante volte.
«E non ero mai stanco perché io avevo conosciuto la stanchezza vera. Sapete cos’è la stanchezza vera? È lavorare in fabbrica. Dopo aver frequentato le Medie in seminario a Finale Ligure… tanto che se avessi voluto sarei potuto diventare prete, ma non era quello il mio percorso… una volta tornato a Roncello, 3 anni dopo, iniziai a lavorare con papà nella stessa trafileria in cui si spaccava la schiena lui. Rame e altri metalli. Avevo 14, 15 anni. Era un lavoro durissimo. Faticosissimo. Anche pericoloso. Un anno e mezzo in fabbrica. E i lavori più pesanti li facevano fare a noi giovani. La stanchezza vera era quella. Altro che allenarsi due volte nello stesso giorno!».
Ma è vero che un giorno sfidò Mennea?
«Verissimo! Ero in Nazionale a Roma. Nello stesso centro si allenava anche lui. All’Acqua Acetosa, se non sbaglio. Un giorno uscimmo dagli spogliatoi io e Facchetti, un’altra grande persona come Riva. Scorgemmo sulla pista d’atletica i blocchi di partenza. Giacinto e io cominciammo a sfidarci, a fare un po’ gli stupidi. Proprio per questo Pietro, quanto ci vide, ci disse: “Vogliamo vedere quanti metri di distacco vi do? Così magari vi date una regolata!”. Corremmo i 100 metri per due volte. Ovviamente lui vinse sempre senza problemi. Ma in entrambi i casi non mi rifilò un gran distacco, anzi. Davvero pochi metri. Rimase meravigliato. Allora pensò di darmi un consiglio: “Se corri coi gomiti giù vai più veloce”. E io: lo dici perché tu sei un velocista, ma io devo tenerli sempre su per difendermi dai difensori avversari, me l’ha insegnato Ferrini a suon di botte in allenamento…”.
Lei correva forte, ma tirava anche forte. Lo confessi! Quel pantaloncino tirato su sulla natica prima di calciare le punizioni era anche un vezzo! In ogni caso: un gesto ormai iconico, per i tifosi del Toro.
«Ma che vezzo! Mi liberavo la gamba per avere più libero il movimento e così riuscivo a calciare più forte. Non era solo un fatto psicologico, a quei tempi i pantaloncini erano stretti sulle cosce e davano quasi fastidio a chi aveva una muscolatura come la mia. Ricordo che a Coverciano c’era un muretto con un’apparecchiatura speciale che misurava la forza dei tiri, serviva per farci i test in Nazionale. Col destro lasciavo partire delle botte da 120 chilometri orari. Ma con il sinistro addirittura da 178».
Anni dopo, Koeman arrivò a 188 chilometri orari. Anche Roberto Carlos arrivava a 180. Il record è di un altro brasiliano, Heberson: 221 chilometri.
«E io ero un destro, non un mancino. E sapete perché imparai a calciare così forte col sinistro? Sempre nel vivaio e sempre per merito di Ussello. Un giorno mi chiese, anche se lo sapeva benissimo: “Paolino, qual è il tuo piede preferito?”. E io: il destro, ovvio. “E qual è la tua gamba più forte?”. Diedi di nuovo la stessa risposta. E Oberdan: “Non dire bugie con me!”. Bugiardo io con Ussello davanti? Mi sembrava un dialogo surreale. Oberdan riattaccò: “Quando calci col tuo piede naturale ti appoggi sulla gamba sinistra. Ora, Paolino, pesa di più il pallone o il tuo corpo?”. Cavolo, era vero, aveva ragione lui! Capite che maestro era? Quanti come lui oggi, nei vivai di Serie A? Così imparai a usare sempre meglio il sinistro. E su suo consiglio per tanti giorni mi misi a calciare contro il muro di cinta interno del Fila, vicino al secondo campo, quello per noi ragazzi. Destro, sinistro, destro, sinistro. E meglio lo facevi, più aumentava la velocità del pallone. E anche grazie agli insegnamenti e agli aiuti paterni di Ussello, che mi rimase sempre vicino, uscii più forte dalla stagione 1969-’70, quella delle 24 presenze in prima squadra e zero gol. Potevo crollare. Invece rafforzai il carattere grazie alla sofferenza e diventai Puliciclone».
Ma con Giagnoni nel suo primo anno, 1971-’72, incontrò qualche difficoltà: solo 5 gol in campionato, prima di esplodere definitivamente dalla stagione successiva.
«L’insegnamento migliore di Gustavo fu mandarmi dopo gli allenamenti a insegnare ai ragazzini del vivaio i passaggi, i tiri, i cross, gli stop. Si allenavano sul campetto secondario. Io dovevo spiegare loro la tecnica prima a voce e poi mostrando il gesto. E così, insegnando loro, imparavo sempre meglio anch’io».
Il gol più… grande nel suo cuore? Domanda scontata?
«Scontatissima. Quello al Cesena il giorno dello scudetto».
Il rimpianto che brucia ancora?
«Essere stato costretto dalla nuova società ad andarmene nel 1982... Moggi: dopo l’addio di Pianelli. Che tanti anni prima alla fine di una partita aveva giurato sulla mia gamba, sventrata da un fallo e ricucita nell’intervallo con le graffette del tempo, che un torello così coraggioso non avrebbe mai dovuto lasciare il Toro. Uno come me avrebbe voluto e dovuto chiudere la carriera in granata. Mi tolsero questo sogno e ancor oggi provo una rabbia enorme. Non mi diedero neanche il permesso di allenarmi coi compagni. Davo fastidio perché facevo troppa ombra ai nuovi arrivati in società. Così passai all’Udinese. E poi alla Fiorentina».
Se è per questo, mesi fa ci raccontò che Cairo, all’inizio della sua presidenza, la convocò per poi dirle che non sapeva che cosa farle fare nel Torino…
«Già, proprio così. Ma non è certo per questo che giudico fallimentare il suo ciclo. Vent’anni modesti, mediocri, senza vere ambizioni, tra una valanga di promesse non mantenute e la vendita continua dei talenti migliori. Costruendo poco o nulla. Manco il Museo del Grande Torino al Fila è riuscito a realizzare! Neanche le basi del Toro! Con Pianelli non perdevi mai la speranza. Con Cairo, invece, quasi non la coltivi. Sperare è normale, anormale è mettere sul tavolo le problematiche di questi decenni. Presidenze non da Toro vero, anche prima di Cairo. D’altra parte, tornando all’attuale proprietario, se pensi solo o soprattutto ai soldi e non ami abbastanza il Torino, non vai da nessuna parte. Il 10° posto, ecco: il simbolo della mediocrità, visto che parliamo del Toro. Da tanti mesi i tifosi contestano e li comprendo benissimo. Loro, e quel canto ormai ben noto: “Urbano Cairo devi vendere… vendere…”. Anch’io spero in un cambio di proprietà, in una società migliore. C’è tutto un popolo che sogna di esplodere di gioia davanti a un Toro tornato di nuovo vero».
Indirizzo preciso di Pupi e famiglia a Torino, vicino al Comunale?
«Via Monfalcone 24, terzo piano. Ogni tanto vado lì sotto, quando torno a Torino, e rivedo la scena: io che torno a casa a piedi dopo le partite attorniato dai tifosi. E poi a sera quelle improvvise urla di qualcuno sotto le mie finestre: “Pupi, facci un gol!”. Che malinconia. Ma anche che soddisfazione, a ripensarci».
Ed Helenio Herrera?
«Anni dopo quel provino, credo nel ’73 quando tornò all’Inter, mi venne vicino prima della partita contro di noi e mi disse: “Non ho creduto in te e sei diventato un grande bomber. Ho sbagliato”. Fu il suo modo di chiedermi scusa. Gli strinsi la mano con vigore: era giusto fare così».