Ho davvero creduto che Spalletti fosse diventato, negli anni pietroburghesi, la reincarnazione latina di Rasputin. Ho tifato perché dietro i suoi svenimenti in campo, i crani picchiati a farsi male, gli allucinati e meravigliosi sermoni tattici, contro ogni buona regola della comunicazione, ci fosse uno sciamano capace di scrollarsi di dosso gli schizzi di merda. Con un lieve e carismatico gesto della mano. Mi sbagliavo. L’ultimo Spalletti è sul solco di Luis Enrique. Quello del cedimento emotivo. Della tortura quotidiana. Ne replica anche, chissà se consapevole, le parole: “Che cosa ho fatto per meritare tutto questo?”, dice dopo Roma-Lione. Allude alla quantità industriale di sfiga che lo ha abbattuto, ma quello che parla in lui, quello che conta, si riferisce in realtà sempre alla stessa cosa, sempre alla stessa merda.
Da queste parti puoi esistere solo se riesci a volare alto e sprezzante. Se finisci con la gomma nel fango (illuminante metafora che Spalletti usa per raccontare la Roma, in realtà raccontando se stesso), non ne esci. Diventi sì un caso da manicomio. Invecchi e ti debiliti. Se non sei un androide dentone che si fa plagiare dal Codice di Boniperti e preferisce dimenticare d’essere partito da Livorno, la città più anarchica del mondo.
Se resti invece quel ragazzo di provincia, che si porta dietro tutto e non dimentica sgobbo e umiliazioni, oggi straricco sì e lo fai notare, un po’ buzzurro ma come ti capisco, maniaco e anche un po’ sulfureo, che si dice “sfigato”, con una struggente per quanto dissennata e inusuale fuoriuscita pubblica del proprio tormento interiore (l’equivalente del cranio sbattuto sul tavolo). Perle regalate ai porci. Ma i porci non distinguono, non decifrano, prendono tutto alla lettera e chiedo scusa ai porci, animali notoriamente dall’intelletto fine.