Tra i podisti del Massimo D’Azeglio c’era un certo Molinatti, fervente cultore della marcia, che aveva due cugini di una ventina d’anni, non meno vivaci degli altri nell’amare lo sport; la loro grande passione era il ciclismo e la domenica se ne andavano sulle polverose strade della provincia a spigolare ricche medaglie di latta e di vermail. Si chiamavano Canfari e se i quindici studenti del D’Azeglio nonostante il divario d’anni li vollero con loro fu innanzitutto per una ragione di sicurezza. I due Canfari cominciarono a frequentare il campo e l’incubo dei giovinastri che si divertivano a rubare il pallone e bucarlo con spilloni da cappello per signora finì. Fu nell’autunno del 1897 che i fratelli Canfari aprirono, in Corso Re Umberto, numero 42, un negozio di cicli e accessori con annesso piccolo laboratorio: là gli studenti si ritrovavano un po’ per aggiustare con forte sconto le gomme bucate della bicicletta, un po’ per parlare di calcio e dare così gli ultimi ritocchi alla conversione dei due robusti fratelli.
La fondazione della società
A forza di ritrovarsi tutte le sere nello stesso posto, era logico che gli studenti decidessero di fondare una regolare società. Le origini sono molto scure se non altro a causa della tenebre che regnavano sempre nel negozio dei Canfari, rotte a malapena da un noioso rondante fanale di acetilene. Comunque fu lì che venne tenuta la prima assemblea conclusa in una baldoria d’inferno quando si arrivò a trattare il problema finanziario e il più pratico dei convenuti disse che l’unico sistema per risolverlo alla meglio era tassarsi con la quota di una lira mensile. E lo statuto abbozzato in una notte di veglia del Varetti comprendeva un solo articolo: «La società ha per scopo lo sviluppo di ogni ramo dello sport». Non si chiamava ancora Juventus, il nome venne qualche settimana dopo, non aveva ancora dei colori, ma aveva l’entusiasmo di un gruppo di adolescenti che sognavano. Sognavano un sogno destinato a non finire mai.