TORINO - Come uscire dalla crisi: se lo chiedono un po’ tutti, dai tifosi agli addetti ai lavori. E in primis la Juventus, intesa come società, allenatore e giocatori. Bisogna ritrovare lo spirito bianconero, quel Dna che ha sempre caratterizzato la squadra più titolata d’Italia. Sul come farlo, abbiamo interpellato tre ex bianconeri, Fabrizio Ravanelli, Angelo Di Livio e Sergio Brio, che hanno puntato sul senso di appartenenza, sul significato della maglia, sul concetto di gruppo, che prevale sul singolo. Errori ne hanno commessi tutti, dai dirigenti al tecnico, alla squadra, ma anche in passato il club ha attraversato momenti difficili: bisogna avere la forza per reagire, possedere quella leadership che si respira soltanto nei top club.
Fabrizio Ravanelli
«Si riparte sempre dal lavoro, con umiltà, determinazione e carattere. Quando si indossa la maglia della Juve bisogna prendersi le proprie responsabilità e togliersi da addosso la paura, devi essere un leader, lo dice la storia del club. Si vince da squadra e una squadra non è composta soltanto dagli undici titolari, ma occorre avere, al giorno d’oggi, venti leader che siano pronti a fare la corsa per il compagno, a metterci il cuore, a sacrificarsi. È capitato anche a me di vivere momenti di crisi e ci siano rialzati mettendoci la cattiveria. Certo, non è facile da gestire il momento, la Juventus ha fatto un punto nelle ultime quattro gare, la vediamo in confusione, impaurita, nevrotica. A cominciare da Vlahovic: l’attaccante deve avere la consapevolezza che la società ha fatto un grande investimento su di lui e che i tifosi sono al suo fianco. Deve scrollarsi ogni paura, lavorare senza ansie, ma con serenità. Nessuno mette in discussione le sue qualità, però deve rimanere tranquillo perché il nervosismo lo porta a non riuscire a esprimere il suo potenziale, a non dare il 100 per cento, a sentirsi in colpa perché il club si aspetta tanto da lui. Per esperienza, però, dico che non è mai soltanto colpa del singolo: sarebbe troppo semplice prendersela con l’allenatore o con questo o l’altro giocatore. La Juve nella sua storia ha vinto con giocatori simbolo come Sivori, Charles e Boniperti, Platini, Baggio, Vialli, Ravanelli e Del Piero, Trezeguet, Higuain e Cristiano Ronaldo, ma alle loro spalle c’era tutta la squadra. Non basta avere 2-3 fuoriclasse in cui si identifica lo spirito Juve, deve essere omogeneo all’interno dello spogliatoio, devono essere tutti leader, anche se ognuno ha caratteristiche e capacità diverse. Però il carattere, a differenza della tattica, della tecnica della condizione fisica, non si allena: o ce l’hai o non ce l’hai. Non so se la dirigenza ha compiuto delle valutazioni sbagliate su alcuni elementi. Ai miei tempi si chiamavano i giocatori del giovedì: finché non c’è la pressione della partita giocano alla grande, ma quando si avvicina il match non ragionano e si lasciano sopraffare».
Angelo Di Livio
«È una questione di attributi, che bisogna possedere per lottare e sudare per la maglia della Juve, che pesa molto. Ci voleva poco per battere il Monza, non serviva certo Guardiola in panchina. Eppure non sono riusciti, e non è la prima sconfitta. Per me la responsabilità è principalmente dei giocatori: l’errore di Di Maria, che si fa cacciare e lascia la squadra in dieci, è gravissimo. Può succedere, per carità, ma non in questo momento difficile dove un campione deve dare il buon esempio. Più che rimpiangere l’assenza di alcuni giocatori, importanti, come Pogba e Chiesa penso che la squadra abbia bisogno di una ripulita nella testa e che debba continuare a lavorare per non ricadere nei soliti errori, magari ripartendo dalle cose più semplici, da fare con serenità, senza lasciarsi prendere dalla frenesia. Mi sembra che tutti cerchino di raggiungere il risultato da soli e non si ragioni da squadra. Anche perché si rischia di finire in un circolo vizioso: Vlahovic è nervoso perché non segna, e tutti gli attaccanti sono nervosi quando non fanno gol, però più è nervoso e più continua a non segnare. Basta una rete e una vittoria per ribaltare la situazione. Però la Juventus deve ritrovare la giusta cattiveria agonistica e penso che Bonucci e Allegri, che sono i depositari del Dna bianconero, abbiano il compito di trasmetterlo agli altri e la squadra deve possedere quell’intelligenza calcistica per assimilarlo».
Sergio Brio
«Qualche giocatore pecca in personalità: un campione, per essere completo, deve possedere tecnica, testa e grinta, invece alla Juventus c’è gente che, di fronte ai fischi dei tifosi, va in affanno e ha persino paura di passare la palla. Anche la mia Juve ha vissuto momenti difficili, giocavamo con le camoniette della polizia a bordo campo per via delle contestazioni, ma tiravamo fuori gli attributi. Come se ne esce? Soltanto da squadra, con il collettivo. Bisogna reagire, fare gruppo, non sentire le voci, concentrarsi sul campo e lavorare sodo, sacrificando anche la vita privata. I senatori devono farsi sentire nello spogliatoio, ma lo spirito Juve bisogna sentirselo dentro. Per carità, nulla è compromesso, però quella vista a Monza non è la Juve. È vero, siamo a inizio campionato, la squadra è cambiata tanto, deve ancora trovare l’alchimia, è vero che alcuni giocatori con il fisico più possente, come per esempio Vlahovic, ci mettono più tempo per entrare in forma, è vero che ci sono stati tanti infortuni - da Pogba a Chiesa - che hanno fatto saltare i piani di Allegri, costringendolo a mandare in campo dei ragazzini, che comunque si sono comportati bene. Non sono alibi, ma circostanze che pesano. Se poi i campioni deludono e rendono meno di quanto ti aspetti, allora vai in difficoltà, se la squadra è carente da un punto di vista psicologico, va in crisi. E anche Allegri ci ha messo del suo, facendo tanti errori, non ultimo aver tolto Milik, l’unico che si era reso pericoloso, contro il Benfica. Però io sostengo che i giocatori devono fare i giocatori e non si possono sostituire al tecnico: Di Maria si poteva risparmiare il siparietto in Champions, quando è andato a chiedere all’attaccante polacco perché è stato sostituito. Vista la sua esperienza, sa che ci sono mille telecamere e che di lì a qualche minuto quel colloquio sarebbe finito sul web. Un giocatore non deve intercedere pubblicamente con il lavoro dell’allenatore: semmai glielo dice privatamente, lontano da occhi indiscreti, perché altrimenti mette in difficoltà il tecnico».