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Inzaghi alla Juve: l’ultimo lavoro di Giuntoli. Inter alla resa dei conti

L’allenatore e il club nerazzurro si incontreranno, ma tira sempre più aria di addio: due le opzioni

Il boomerang della riconoscenza

Simone Inzaghi nella finale di Champions è andata fondo con i suoi "titolarissimi". Il boomerang della riconoscenza è spesso stato causa di sconfitte memorabili nel calcio e la disfatta di Monaco non fa eccezione. Che il Paris Saint-Germain fosse il peggior avversario possibile per l'Inter si sapeva: squadra ben organizzata difensivamente, tanti ex della nostra Serie A (Luis Enrique compreso) e attaccanti velocissimi. Certo è che nessuno si sarebbe immaginato una simile mattanza. Il grande incubo vissuto dall'Inter all'Allianz Arena ha radici lontane: Inzaghi per primo non è riuscito a metabolizzare la delusione per lo scudetto perso (pardon, gettato) in volata tra recriminazioni pubbliche e private sugli arbitraggi e senso di accerchiamento dovuto al mancato riconoscimento del lavoro fatto in questi anni. L'allenatore è arrivato troppo carico alla finale, teso come una corda di violino e terreo in volto quando ha messo piede sul campo oltre un'ora prima del fischio d'inizio. Stridente la differenza con Luis Enrique che, dopo averlo salutato, rideva e scherzava un po' con tutti, dando l'immagine di una serenità olimpica, contro un avversario divorato dalle tensioni. Un mood - a giudicare dallo sconcertante approccio alla finale - che la squadra ha assorbito.

Così, mentre il Psg buttando la palla avanti sul calcio d'inizio dichiarava idealmente guerra all'Inter, l'Inter - che dal carattere ha sempre tratto linfa per andare oltre a ostacoli che parevano insormontabili - si è sciolta come neve al sole. Più di una scelta tattica non ha poi convinto: contro un avversario che aveva un centravanti di movimento, sarebbe stato meglio puntare su De Vrij anziché Acerbi, bravissimo sull'uomo ma meno a suo agio nel marcare a zona. Si è rivelato un azzardo consegnare la maglia da titolare a Pavard che non giocava dal 27 aprile ed era evidentemente arrugginito anziché puntare sulla fisicità di Bisseck oppure sull'esperienza di Darmian. Pure la gestione di Lautaro non ha convinto: perché metterlo sotto una campana di vetro dal 6 maggio? Non poteva giocare un tempo a Como per ritrovare il ritmo partita? Discorso che vale pure per i cambi: perché tenere in campo Dimarco, evidentemente spaesato contro Doué? Perché al suo posto non è entrato Carlos Augusto? Tra l'altro a Como non dispiaciuta la soluzione con il 3-4-2-1, più logica ed equilibrata per tentare la rimonta.

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