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Ricordando Arpad Weisz, l'allenatore assassinato

Il 31 gennaio di 80 anni fa, il più grande tecnico degli Anni 30 finiva nelle camere a gas di Auschwitz, dopo 16 mesi di lavori forzati

Fu chiuso in una camera a gas ad un anno meno quattro giorni dalla liberazione di Auschwitz, ucciso assieme ad altri uomini ridotti a scheletri, senza identità, perché un essere umano privo di identità non è più un essere umano, è un essere annullato. E questo, d’altronde, era il vero obiettivo dei nazisti: annullare coloro che venivano reclusi nei campi di sterminio. Eppure Árpád Weisz era stato il migliore allenatore degli anni Trenta, il più innovativo, capace di primeggiare in Europa. In Italia aveva vinto lo scudetto nel primo girone unico con l’Ambrosiana Inter ed aveva fatto del Bologna la squadra che “tremare il mondo fa”, la prima a sconfiggere una formazione inglese, il Chelsea, in una epocale sfida giocata a Parigi nel 1937.

Chi era Arpad Weisz

Weisz aveva vinto più di tutti nella sua epoca, titoli nazionali e coppe. Verso la fine di una discreta carriera da calciatore spesa in Ungheria e Cecoslovacchia, poi in Italia con l’Alessandria, sei presenze nella nazionale magiara, era all’Internazionale quando nel 1925 un brutto incidente lo aveva costretto ad attaccare le scarpette al chiodo. Si era allora recato in Uruguay per capire cosa aveva più degli altri il calcio platense, dal nome del rio de la Plata, il grande fiume che segna il confine tra Uruguay ed Argentina, i paesi calcisticamente più evoluti del momento, Inghilterra esclusa. Poi, rientrato in Italia, aveva preso a fare il vice di Augusto Rangone all’Alessandria.

Weisz era tornato all’Inter da tecnico nel 1926. In quella squadra c’erano fior di campioni, tra cui il capitano Leopoldo Conti, Luigi Cevenini detto Zizì, Fulvio Bernardini detto Fuffo. Innovò i metodi di allenamento, introdusse la dieta per gli atleti, fece svolgere i primi ritiri. Osservava il vivaio. E tra i ragazzi scovò un tipo esile nel fisico ma di straordinaria potenza quando giocava. Lo fece debuttare ad appena sedici anni. Conti, ironico, esclamò: «Adesso facciamo giocare anche i balilla!». E difatti quel ragazzino, al secolo Giuseppe Meazza, da lì in poi fu per tutti il Balilla.

Weisz rimase due anni all’Inter, poi fu lasciato libero. Si era nel 1928. Il fascismo si stava avviando a vivere il massimo consenso. Benito Mussolini era al potere da sei anni. La nazionale azzurra, alle Olimpiadi di Amsterdam, aveva vinto la medaglia di bronzo alle spalle di Uruguay ed Argentina. Sulla panchina sedeva Vittorio Pozzo che l’avrebbe portata al titolo mondiale a Roma nel 1934, all’oro olimpico a Berlino nel 1936 e al secondo titolo mondiale a Parigi nel 1938.
Weisz aveva lasciato l’Ungheria nel 1924 perché non gli piaceva il vento che ormai soffiava in quella nazione. Miklós Horthy, reggente di un ricostituito regno senza corona, era reazionario ed intollerante. Weisz, come tanti altri, per lo più ebrei, aveva allora accettato che il calcio lo portasse in Italia. Tornare in Ungheria, dunque, non lo entusiasmava. Ma la mancata riconferma sulla panchina interista lo convinse ad accettare l’offerta dell’Haladás di Szombathely, la più antica città dell’Ungheria, dove conobbe Ilona Rechnitzer, la sua futura moglie. Con l’Haladás, tra l’altro, fece un’esperienza di enorme valore formativo: una tournée di quattro mesi in America Latina e a Cuba, in Messico e negli Stati Uniti.

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