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Mihajlovic, il coraggio di essere Sinisa: i successi, i "no", la tribù da proteggere

Fiero, orgoglioso, a volte spigoloso, non è mai sceso a compromessi. Una carriera da calciatore vincente, mago delle punizioni e leader di qualunque spogliatoio

La prima volta in cui il mondo ha conosciuto Sinisa MIhajlovic è stato il 29 maggio 1991, a Bari. Dentro al San Nicola, in cui l’Italia aveva conquistato il terzo posto al Mondiale pochi mesi prima, la Stella Rossa di Ljupko Petrovic, giramondo slavo, alzava la Coppa dei Campioni battendo nella finale l’Olympique Marsiglia capitanata dal celebre Bernard Tapie. Sinisa aveva capelli ricci, un fisico statuario, ma soprattutto era terzino sinistro e non ancora il grande libero nel quale l’avrebbe trasformato Sven Goran Eriksson alla Samp. Per inciso, soltanto pochi anni dopo, i due avrebbero vinto assieme il secondo e sin qui ultimo scudetto della Lazio, stagione 1999- 2000.

La guerra e lo spirito di sopravvivenza

L’allenatore che tutto il mondo oggi piange, senza distinzioni di bandiera, tifo o di confine, in realtà ha dovuto fare i conti per tutta la vita proprio con le frontiere. Sinisa era nato a Vukovar, un nome passato alla storia non per l’ospedale in cui nacque Sinisa il 20 febbraio 1969, ma per una delle fasi più cruente nella guerra di Jugoslavia. È definita come “battaglia di Vukovar”. Il simbolo è diventata la torre idrica, distrutta dai colpi di mortaio. Figlio di madre croata e padre serbo, Mihajlovic la guerra l’ha avuta in casa, fra parenti. Per questo è sempre pericoloso affibbiare etichette quando si guarda alla vicenda con gli occhi dell’Occidente. È vero che scrisse un censurabile necrologio per la tigre Arkan, ed è vero che difese Mladic, così come la Belgrado del ’99 insanguinata dalla bombe Nato, ma in Sinisa non ha mai prevalso l’analisi politica o geopolitica. Ha invece dominato lo spirito di sopravvivenza, il senso di protezione per la sua gente, per i suoi cari, un sentimento che ha trasmesso per intero alla propria famiglia italiana, la moglie Arianna e ai cinque figli avuti con lei. Più una splendida nipotina, Violante, nata un anno fa, figlia della primogenita Virginia. La dura battaglia di Sinisa contro la malattia riscontrata nel 2019 gli ha permesso l’ultima gioia di vedere la piccola e di tenerla in braccio.

La sua tribù da proteggere

In Sinisa l’idea di tribù è sempre stata fortissima. Valeva per i suoi giocatori come per la sua gente. Forse perché la guerra è stata compagna di vita sin da subito, come dicevamo. E ciò ha fortificato il suo carattere, l’ha trasformato in leader di qualunque spogliatoio. Il primo fu quello del Vojvodina, città di Novi Sad. Non aveva ancora vent’anni quando vinse il primo campionato, nell’estate del 1989. Da lì il passaggio alla Stella Rossa nel ‘90, componente della più forte generazione mai vista al di là dell’Adriatico dai tempi della Nazionale olimpionica di Roma ’60. Con la Stella Rossa, Sinisa ha raggiunto due campionati e la Coppa Intercontinentale contro il Colo Colo, in Giappone. Il mondo lo aveva dunque conosciuto.

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