Era bravissimo, Marco. E non lo dico perché adesso non c’è più, fregato da un infarto, fottuto dalla vita proprio quando cominciava a godersela, ma perché era bravo davvero, che si parlasse di calcio o di scherma, di pallavolo o di sci, o di quello che si voleva. Marco non era mai banale, Marco era ironico e tagliente, Marco aveva una chiave di lettura per tutto, una prospettiva critica sempre interessante, la libertà intellettuale di scrivere ciò aziendali, limiti precostituiti. Marco era un giornalista come dovrebbero essere tutti i giornalisti e come spesso - purtroppo - non siamo capaci di esserlo: da lui ho imparato molto lavorandogli al fianco, condividendo le trasferte al seguito della Juventus, del Torino, del Milan, dell’Inter, della Nazionale, consumando cene e dopocene. Mi aveva (anche) insegnato ad apprezzare il cibo piccante: viaggiava con la scorta dei peperoncini, ovunque fosse, in qualsiasi ristorante si presentasse, tirava fuori dalla tasca il sacchetto di ordinanza e colorava i piatti di rosso. A Spalato, ai tempi dell’Italia di Arrigo Sacchi, aveva scioccato una vecchina che sul suo fazzoletto consunto vendeva peperoncini verdi: ne aveva addentato uno e poi un altro per assaggiarli, lamentandosi con una smorfia perché non erano abbastanza forti. Poi li aveva comprati tutti, offrendoli a tavola ai commensali. Ricordi che spaccano l’anima e fanno venire i lucciconi. Marco mi/ci mancherà, mancava già da (pre)pensionato non leggendo più i suoi resoconti su La Stampa, figurarsi adesso. Non mi viene da scrivere altro, eppure potrei scrivere per ore, per giorni. Trent’anni di vita, di carriera con il “mormone”, un colpo di spugna e una esistenza non c’è più, inghiottita dal destino. Marco detestava la logorrea, i moralismi, toni e modi appicicaticci: era sabaudo nei pensieri e negli atteggiamenti, dunque non gli romperò le palle da quaggiù con le solite frasi che si scrivono sui morti. Glielo dovevo, glielo dobbiamo tutti noi colleghi. Però, Marco, stavolta l’hai fatta grossa. Troppo grossa.
Era bravissimo, Marco. E non lo dico perché adesso non c’è più, fregato da un infarto, fottuto dalla vita proprio quando cominciava a godersela, ma perché era bravo davvero, che si parlasse di calcio o di scherma, di pallavolo o di sci, o di quello che si voleva. Marco non era mai banale, Marco era ironico e tagliente, Marco aveva una chiave di lettura per tutto, una prospettiva critica sempre interessante, la libertà intellettuale di scrivere ciò aziendali, limiti precostituiti. Marco era un giornalista come dovrebbero essere tutti i giornalisti e come spesso - purtroppo - non siamo capaci di esserlo: da lui ho imparato molto lavorandogli al fianco, condividendo le trasferte al seguito della Juventus, del Torino, del Milan, dell’Inter, della Nazionale, consumando cene e dopocene. Mi aveva (anche) insegnato ad apprezzare il cibo piccante: viaggiava con la scorta dei peperoncini, ovunque fosse, in qualsiasi ristorante si presentasse, tirava fuori dalla tasca il sacchetto di ordinanza e colorava i piatti di rosso. A Spalato, ai tempi dell’Italia di Arrigo Sacchi, aveva scioccato una vecchina che sul suo fazzoletto consunto vendeva peperoncini verdi: ne aveva addentato uno e poi un altro per assaggiarli, lamentandosi con una smorfia perché non erano abbastanza forti. Poi li aveva comprati tutti, offrendoli a tavola ai commensali. Ricordi che spaccano l’anima e fanno venire i lucciconi. Marco mi/ci mancherà, mancava già da (pre)pensionato non leggendo più i suoi resoconti su La Stampa, figurarsi adesso. Non mi viene da scrivere altro, eppure potrei scrivere per ore, per giorni. Trent’anni di vita, di carriera con il “mormone”, un colpo di spugna e una esistenza non c’è più, inghiottita dal destino. Marco detestava la logorrea, i moralismi, toni e modi appicicaticci: era sabaudo nei pensieri e negli atteggiamenti, dunque non gli romperò le palle da quaggiù con le solite frasi che si scrivono sui morti. Glielo dovevo, glielo dobbiamo tutti noi colleghi. Però, Marco, stavolta l’hai fatta grossa. Troppo grossa.