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Nino Benvenuti, il mondo in pugno: "Io, più bravo sul ring che nella vita"

Nino Benvenuti, il mondo in pugno: "Io, più bravo sul ring che nella vita" AG ALDO LIVERANI SAS
Un’esistenza  bella da bello, ricca e cinematografica, ma pure tormentata. Il Paese si innamorò di lui alle Olimpiadi del ‘60, poi diventò simbolo della boxe e dell’Italian Style. Gancio sinistro e uppercut: dalle notti magiche con Griffith alle beffe con Monzon

Le leggende sono eterne. Gli uomini muoiono. E così è stato per Nino Benvenuti. Già leggendario da vivo, ma pur sempre un uomo avvinto alla sua storia, all’Ego di vincente ma anche della Primadonna, un po’ campione e un po’ istrione, bello per le donne, un po’ meno nelle scelte di vita che le hanno coinvolte, una bandiera da sventolare felici nell’ Italia dei favolosi Anni 60, un personaggio che non si è sottratto ai tipici dualismi italiani: Coppi e Bartali, Rivera e Mazzola. Sul ring del dualismo sono saliti Nino, che all’anagrafe faceva Giovanni, e Sandro Mazzinghi. Personaggi meravigliosi per tratteggiare l’italian style che ci ha affascinato dal Dopoguerra ad oggi: il “bello e impossibile” contro il “combattente indomito”. Nino, a modo suo, ci ha fatto sempre divertire e mai ha permesso di dimenticare quel suo pezzo di storia, storia di una certa Italia, che ha condotto nel dramma delle foibe. Nato a Isola d’Istria 87 anni fa, diventata prima jugoslava, poi slovena: era il 26 aprile 1938, un martedì esattamente come il giorno in cui è morto. Èstato uomo di frontiera eppoi di carriera, passato dal riconoscere espropri e allontanamenti ad espropriare lui gli avversari: fossero sogni di medaglia d’oro olimpica o titoli di campione d’Europa o del mondo. Ed è stata di estrema sincerità la confessione in cui ha ammesso: «Sono sempre stato più bravo sul ring che nella vita».

Vita lunga corredata di notti magiche e di qualche errore. I due incontri con Carlos Monzon, per esempio. Figli di una sbadataggine di Bruno Amaduzzi, il suo astuto manager che, però, quella volta fu gabbato dagli argentini. Gli presentarono Carlos impenetrabile e taciturno come un guerriero di medio calibro. Nino capì tutto quando era troppo tardi: finì male la prima volta a Roma, anno di disgrazia 1970, mese di novembre. Fece esplodere il suo sinistro fulminante, l’altro gli ringhiò in faccia: «Hijo de puta». E dopo due minuti della 12ª ripresa l’argentino sparò il destro che segnò il ko e la conclusione reale della sua carriera. Anche se poi finì peggio a Montecarlo, l’8 maggio 1971, quando volò una spugna a chiudere realmente la carriera.  

 

Furono solo sette le sconfitte, molti di più i giorni di gloria. E chissà mai che la vita non abbia voluto restituirgli qualcosa di quanto gli tolse la storia della sua terra. Nino era figlio di un commerciante di pesce, non a caso amava, più di ogni altro cibo, il brodetto di pesce che preparava il nonno. Non lo ha mai tradito il fisico. Anche al suonare degli 80 anni pareva forgiato come una scultura e non, invece, da una vita piena di pugni. Se n’è andato nella nuvola che prende la testa, annebbia il senso del presente.  
L’Italia lo aveva conosciuto sul podio delle Olimpiadi romane 1960: ragazzo d’oro nei pesi welter, che poi non saranno la sua categoria, sconfisse il sovietico Radonjak. Era stilisticamente elegante e anche potente nei colpi: gancio sinistro e uppercut sono sempre state armi vincenti. Ed infatti a Roma gli venne assegnato il premio per il miglior pugile del torneo, tolto da sotto il naso di un ragazzo che si chiamava Cassius Clay. La storia professionistica lo ha incoronato prima re d’Europa, poi del mondo: campione nei medi junior, titolo che infine gli strappò Kim Soo Ki, l’uomo che avrebbe ingaggiato a San Siro una battaglia della sopravvivenza con Mazzinghi. Ma soprattutto re dei medi quando tenne svegli 18 milioni di italiani per il primo match con Emile Griffith a New York. Tutti ad ascoltare la radio, emozionati dalla voce narrante di Paolo Valenti. Quelli con Griffith furono tre incontri, 45 round, nel segno del vinco-perdo-rivinco. Emozioni indimenticabili per lanciare la leggenda. Poi i due match con Sandro Mazzinghi che non finirono mai fuori del ring. Sul quadrato vinse Nino.

E nulla contarono le giustificazioni per Mazzinghi, che era molto amato. Così fra i due non scattò realmente mai la scintilla di una pace interiore, se non esteriore. Infine arrivò Monzon. Ma Benvenuti aveva già avuto molto dalla boxe. Gli americani gli dedicarono una copertina su Life e su The Ring, la Bibbia del pugilato, la Paramount gli offrì un milione di dollari all’anno per aprire una catena di ristoranti negli Usa. Poi c’è stata la vita reale. Nino è migliorato grazie alle donne che gli sono state accanto: turbolento e pieno di spine il rapporto con Giuliana, la prima moglie spesso strepitante. Migliore il rapporto con una diplomatica argentina e infine il tormentato amore con Nadia Bertorello, dimenticata, poi ritrovata, infine sposata: mamma di Nathalie, la figlia che lo ha seguito fin a tarda età. Con gli altri figli - cinque, uno dei quali perduto 5 anni fa - sono state incomprensioni e dolori. Ma tutta la vita di Benvenuti ci ha raccontato un vai e vieni di legami: aiutò Griffith quando lo seppe in grande difficoltà. Andò a sostenere la bara di Monzon «perché -disse - merita rispetto». Si recò in India per leggere nella sofferenza e capire di essere un privilegiato. Si provò nel cinema con l’amico Giuliano Gemma: si erano conosciuti al centro addestramento pompieri per il servizio di leva obbligatorio. Si iscrisse all’albo dei giornalisti nel 1979, seppur i rapporti con la categoria siano stati di alternante conflittualità. Scrisse un libro: “Il mondo in pugno”. Sintesi perfetta di una vita.

 

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