«Non sono un gran dormiglione». Lo ha scritto George Foreman nella prima riga della sua autobiografia. Ora dormirà per sempre. La vita spesso ti smentisce. Se n’è andato. Come tutti i meravigliosi avventurieri del ring di una certa epoca. Diciamo Muhammad Ali e Joe Frazier, per citare i più noti. E non c’è stata solo la rievocazione del “Rumble in the Jungle”, la sfida della leggenda recitata, e persa con Ali, celebrata l’anno scorso, 50 anni dopo, a cesellare la grandezza di questi campioni. “Big George”, com’era definito Foreman, ci ha lasciato nel silenzio e nell’affetto di una numerosa famiglia. Gli hanno contato 12 figli e 5 mogli. E cinque dei ragazzi si chiamano George, non fosse mai che dimenticasse qualche nome. Aveva 76 anni. Ali se n’è andato a 74 e Joe Frazier a 67. Una vita a contatto di pugni, un inseguirsi nell’Olimpo dei gloriosi, non poteva chiudersi che nello stesso alveo di età. George per ultimo, come nelle date di nascita: Alì nato nel 1942, Frazier nel 1944, Foreman nel 1949.
Tra Alì e Moorer
La Quinta sanguinaria, la Bloody Fifth, è stata una strada madre di vita per un ragazzo abituato a battagliare nella povertà di un ghetto nero a nord di Houston, tra drogati, assassini e ladri. George si adattò subito all’ambiente rubando e taglieggiando. Poi, a casa, faceva i conti con la povertà di famiglia e con la fame. Un giorno andò per strade e distrusse 200 vetrine. «Al mio confronto Tyson è stato solo un birichino» raccontò quando la vita sua era finalmente tutt’altra. Nato a Marshall, nel Texas, figlio di Nancy e di un padre biologico che conoscerà anni dopo, ha seguito quattro comandamenti: pugni, Bibbia, cheesburger e frittelle. Con tre di questi ha fatto i soldi, con la Bibbia ha vissuto da pastore di anime, pronto a raccattare quattrini per la comunità. Diceva: «Credevo che la religione fosse roba per perdenti, oggi vado con la Bibbia sotto braccio». Finché non gli toccò tornare sul ring per rimpinguare le casse. E il ritorno fu un successo. Tra vittorie e sconfitte, un giorno del novembre 1994 a Las Vegas, 20 anni dopo “The Rumble in the Jungle” a Kinshasa, bella differenza di logica storica e di location, mise i calzoncini indossati nel match perdente con Alì e trovò sul ring Michael Moorer, pimpante campione dei massimi. Lo riempì di pugni, lo stese con un corto destro e riconquistò il titolo. Campione del mondo a 45 anni: un record.
I quattro Foreman
Personaggio molto più simpatico e affascinante di quando se n’era andato, conquistò davvero il mondo. La faccia rotonda e buffa, il cranio rasato sostituirono l’immagine di quel pugile statuario e sbruffone, stereotipo del nero un po’ spocchioso che arrivò alla storia sventolando la bandierina Usa quando vinse l’oro olimpico a Mexico City. Scardinare Joe Frazier dal trono dei massimi fu l’opera d’arte, ma poi fece la parte di «un imbecille al bavaglio» come dirà Muhammad Ali inventando il termine “rope-a-dope”. E lui confermerà. «L’imbecille ero io». Solo i pugni non persero mai “l’effetto ko”. «E l’amicizia con Ali è stato il regalo più bello che ho ricevuto dalla vita», confessò anni dopo. Ma il mondo quanti Foreman ha conosciuto? Almeno quattro. In ogni caso uno scultoreo ercole: un metro e 93 per 101 kg, un allungo da un metro e 97. Il primo Foreman nella parte dell’antipatico del ring. Il secondo è stato uomo di Chiesa, dopo aver lasciato la boxe nel 1977. Il terzo un arzillo, simpatico, vecchione che ha continuato a stendere avversari, fino a chiudere nel 1997. Il quarto un inarrivabile venditore: fossero patatine o hamburger, prodotti per bagni o silenziatori per il motore. Infine grill, per frittelle, bistecche e affini, che portavano il suo nome, e gli fruttavano 4 milioni al mese. Successo che fruttò 138 milioni quando vendette “nome e immagine” al produttore. Quattro vite, ma non solo quattro. Comunque un campione che diversi campioni, da Magic Johnson a Mike Tyson, hanno voluto onorare. L’ultima riga della autobiografia ci dice tutto il resto: «Dio mi ha dato proprio una bella e intensa vita». Amen.