Olimpiadi e disabilità: un rapporto in continua crescita

Da Roberta Amadeo a Martina Cairoli, da Alex Zanardi a Bebe Vio: i campioni esempi e motori trainanti del futuro delle discipline paralimpiche, un mondo che accoglie sempre più atleti italiani
Olimpiadi e disabilità: un rapporto in continua crescita

Rio 2016 è stata la testimonianza di quanto il mondo dello sport stia cambiando. E in meglio. Ma quali sono i numeri, e qual è stata l’evoluzione che ha portato gli sport paralimpici a questo glorioso punto della loro storia? Alle Paralimpiadi di Rio 2016, 4.300 atleti da 176 Paesi hanno gareggiato in 23 discipline paralimpiche, attirando in Brasile migliaia di appassionati (con quasi due milioni di biglietti venduti) e ne hanno incollati davanti alla tv molti di più. Una situazione ben diversa dalla prima Paralimpiade, che si è tenuta nel 1960 a Roma, con 400 atleti da 21 nazioni davanti ai 5 mila spettatori che affollavano gli impianti dell’Acqua Acetosa. Oggi le Paralimpiadi sono diventate l’evento principale in cui mostrare ciò che le persone disabili possono fare ed entusiasmano disabili, appassionati sportivi, addetti ai lavori e quell’ampia fascia di popolazione non disabile che sta sui social e mette i like ai post di Alex Zanardi e Bebe Vio. Ma al di là dei successi e delle medaglie di atleti come Martina Caironi e Vittorio Podestà lo sport è davvero così diffuso tra i disabili? O Zanardi e gli altri campioni paralimpici sono casi isolati e lontani dalla realtà?

 

La svolta di Seul

Rio 2016 l’Italia era presente con 94 atleti che hanno conquistato 10 ori, 14 argenti e 15 bronzi, per un totale di 39 medaglie. «È stata la migliore prestazione degli ultimi 30 anni», dice Stefano Caredda, giornalista di Redattore Sociale e Superabile, portale e magazine di INAIL dedicati alla disabilità. Anche se è stato con Londra 2012 che i Giochi paralimpici sono diventati un evento planetario sia per la visibilità sia per le prestazioni sportive. «Fino a qualche anno fa, si esaltava il loro aspetto sociale, tanto che venivano chiamate le Olimpiadi del cuore o del coraggio ed erano confinate nell’interesse dei disabili e dei loro familiari. Adesso invece la disabilità è meno centrale, mentre lo è molto di più l’aspetto agonistico e questo le fa diventare normali», aggiunge Caredda. Ma cosa le ha fatte crescere? «Sicuramente c’è stato uncambiamento culturale, di cui le Paralimpiadi stesse come le conosciamo oggi sono in parte causa ed effetto», dice Caredda. Le prime edizioni, quelle degli anni Sessanta, erano poco più che occasioni di incontro tra infortunati e reduci, «ma dal punto di vista sportivo erano inesistenti – continua Caredda – Non avevano visibilità mediatica perché ancora non si era arrivati al punto in cui la disabilità poteva essere mostrata, e la presenza istituzionale era minima».

Gli incontri non venivano ripresi, non se ne parlava sui giornali, anche gli organizzatori erano piccoli comitati organizzativi che si arrabattavano tra mille difficoltà. Fino alla fine degli anni ‘80 non si chiamavano nemmeno “Paralimpiadi”, quelli di Roma del 1960 erano i “Giochi internazionali per persone paraplegiche” e non ambivano certo a diventare quello che sono oggi. La svolta? «È arrivata con le Olimpiadi di Seul del 1988 dove per la prima volta gli impianti, le strutture e il villaggio olimpico sono stati usati sia per le Olimpiadi sia per le Paralimpiadi – dice Caredda – c’è stato un cambio di mentalità: siamo passati dalle 200 persone che, alla presenza di Carlo e Lady Diana, hanno assistito ai Giochi paralimpici di Stoke Mandeville in Gran Bretagna del 1984 (Los Angeles, dove si erano tenute le Olimpiadi, aveva rifiutato di ospitarli) alle 90 mila dello stadio di Seul». È in quell’anno che le Paralimpiadi hanno assunto una nuova dimensione anche grazie alla decisione del Comitato Paralimpico Internazionale di fare Olimpiadi e Paralimpiadi nella stessa città. «Oggi quello che ha fatto Los Angeles nel 1984 sarebbe impensabile non solo perché contrario alle regole, ma perché per una città ospitare i giochi paralimpici è un fattore su cui puntare per rafforzare la propria candidatura». Insomma, le Paralimpiadi si sono scoperte veicolo capace di cambiare tantissimo la mentalità delle persone. «Le Olimpiadi sono un’esaltazione di ciò che tutti sanno fare, a cui partecipano i più bravi. La stessa cosa oggi vale per le Paralimpiadi: mostrano al mondo imigliori atleti con disabilità», afferma Caredda.

 

Dagli ‘eroi’ allo sport per tutti

Dietro alle Paralimpiadi c’è un’eccellenza sportiva e un movimento di base, con differenze tra i diversi Stati. Ad esempio, l’Ucraina sostiene le élite sportive ma a livello amatoriale c’è poco, «una scelta governativa precisa che ha portato il Paese al terzo posto del medagliere a Rio 2016», in altri invece la pratica sportiva quotidiana è molto più diffusa. E in Italia? «Nel nostro Paese le eccellenze si stanno tirando dietro il movimento di base perché atleti come Alex Zanardi e Bebe Vio sono un punto di riferimento per le persone disabili, rendono evidente ciò che si può fare», spiega Caredda. La situazione è migliorata da quando c’è il CIP (Comitato Italiano Paralimpico) «perché va bene la riabilitazione attraverso lo sport, ma gli atleti vanno sostenuti altrimenti le medaglie non arrivano. C’è un’organizzazione che aiuta a coltivare gli atleti con uno spiccato talento», continua Caredda. E quindi anche gli atleti disabili hanno accesso ai gruppi sportivi militari – le Fiamme Gialle di cui fa parte Bebe Vio ad esempio, o le Fiamme Azzurre con cui gareggia Martina Caironi –, hanno la possibilità una volta finita la carriera di essere assunti nella pubblica amministrazione o nei corpi militari e all’interno delle Federazioni si allenano con gli olimpici. In Italia poi lo sport viene proposto come strumento per il reinserimento sociale, di riabilitazione sanitaria già nelle unità spinali degli ospedali, un approccio totalmente diverso da 30 anni fa, quando per muoversi mettevano a disposizione una carrozzina e basta. Oggi sono gli stessi operatori a prospettare un’altra possibilità. «Le Paralimpiadi fanno da volano per l’attività di base e portano conoscenza: i disabili si rendono conto che è possibile fare sport anche ad alti livelli, i normodotati pensano: “se lo fanno loro, perché non dovrei provarci anche io?”. Insomma, sono un vantaggio per tutti». Vittorio Podestà è un atleta paralimpico di handbike, medaglia d’argento a Pechino 2008, due bronzi e un argento a Londra 2012, due ori a Rio 2016 (uno nella crono H3 e uno nella staffetta mixed team relay H2-H5, insieme con Alex Zanardi e Luca Mazzone). «Dopo Londra, il presidente del CIP Luca Pancalli ha ricevuto migliaia di mail, non solo da parte di disabili, anche di normodotati. Quanto visto in televisione li aveva spinti a cimentarsi in un’attività sportiva». È stata proprio la Paralimpiade di Londra, spiega, a fare da spartiacque: merito del fuso orario favorevole all’Occidente e delle distanze non incolmabili che hanno spinto molti più atleti a partecipare di quanti non fossero volati a Pechino quattro anni prima. E poi Rio, la consacrazione definitiva. «Dopo Londra c’è stato il boom di tesseramenti: tante buone intenzioni, che solo in parte si sono confermate nel corso degli anni. Tra questi, sicuramente ci sono le rivelazioni di Rio Giancarlo Masini, bronzo nel ciclismo su strada, e Monica Contraffato, soldato dell’esercito ferita in Afghanistan e bronzo nei 100 metri. Nessuno di loro avrebbe mai pensato di raggiungere questi livelli: Monica capì di potercela fare guardando in tv le imprese di Martina Caironi sulla pista londinese». Podestà sottolinea l’importanza dell’attività svolta dal CIP nei centri di riabilitazione e nelle unità spinali. «Ero ricoverato in ospedale dopo l’incidente che mi ha provocato la lesione del midollo spinale. Un mio amico, anche lui rimasto disabile in un incidente, venne a trovarmi e mi disse: “Muoviti a uscire. Tra qualche settimana ti porto a giocare a basket”. Basket in carrozzina, ovviamente. Non me lo feci ripetere due volte: sono da sempre uno sportivo, soprattutto appassionato di ciclismo». E proprio al ciclismo ha scelto di tornare dopo la parentesi basket: «L’handbike è un mezzo meraviglioso. Sin dal primo momento per me è stata come un diamante da sgrezzare, che mi permetteva di unire la mia passione per il ciclismo e il mio essere ingegnere. Mi ha permesso di tornare alla libertà che avevo prima e che pensavo perduta per sempre, mi ha fatto di sentire di nuovo il vento in faccia».

 

Il fattore SM

Tra gli atleti italiani che hanno partecipato a Rio 2016 c’era anche Nadia Fario, che ha gareggiato nel tiro a segno, specialità pistola da 10 e da 50 metri (dodicesima nelle qualificazioni, non è arrivata in finale). Padovana, 52 anni e una diagnosi di sclerosi multipla, Fario ha debuttato nel 2002 e gareggia per l’Aspea di Padova. «Il tiro a segno è uno sport più mentale che fisico, ma proprio perché ho la sclerosi multipla, sento più di altri lo sforzo fisico», racconta. Fario cammina con il bastone e per fare i tratti lunghi usa una carrozzina, anche quando gareggia è seduta. «Non riesco a sparare in piedi perché in una malattia come la mia la fatica incide tantissimo. Sparare dalla carrozzina è uno svantaggio, ma si vince anche così», spiega. «C’è chi dice: “quando sono in acqua a nuotare non mi sento più addosso la SM”. Per me è la stessa cosa con la bici, che mi permette di andare a velocità diverse rispetto alle stampelle o alla sedia a rotelle». A parlare è Roberta Amadeo, ex presidente nazionale AISM e handbiker (è una dei 4 atleti con SM a partecipare a gare della Federazione ciclistica italiana e ha vinto due edizioni del Giro d’Italia in handbike). «A chi ha una diagnosi recente si consiglia di non lasciare l’attività sportiva – dice – è lo stesso principio per i normodotati: fare sport migliora lo stato fisico, ti permette di tenere sotto controllo il peso e questo ti agevola nei movimenti, migliora la salute cardiovascolare, ma ti aiuta anche a superare meglio le difficoltà della giornata, a resistere di più». Tra le persone con SM è molto diffusa la pratica del nuoto, perché non carica sulle articolazioni. «Poi però ci sono le passioni personali – continua Amadeo – Fare qualcosa che ci piace porta a superare gli ostacoli e a spostare l’asticella sempre un po’ più avanti, senza strafare ovviamente.

La motivazione però non è sufficiente, mi devo allenare». L’ostacolo più grande da superare nella sclerosi multipla è la fatica. «Che è una cosa diversa dalla fatica che tutti conoscono – spiega Amadeo – Si fa sentire anche al mattino, appena alzata, quando ancora non hai fatto nulla. È una fatica patologica». Oltre aibenefici a livello psico-fisico c’è un’altra ragione per cui le persone con SM dovrebbero praticare sport. «L’attività fisica può migliorare la plasticità cerebrale, un motivo in più per farla », dice Amadeo. Per valutare questa relazione sta partendo uno studio coordinato da Giampaolo Brichetto – medico fisiatra coordinatore della ricerca riabilitativa presso FISM – che coinvolge persone con SM che non hanno mai praticato sport e che saranno seguite da personale tecnico e monitorate dal punto di vista clinico e scientifico. «Da questa ricerca potrebbero arrivare risultati interessanti – conclude Amadeo – Ma ciò non toglie che anche solo sentirsi meglio è già un vantaggio. Io ho scelto di non arrendermi ed essere riuscita a tornare all’agonismo è una conquista. Corro per chi non può farlo, ma chi ne ha la possibilità lo faccia».

 Disabili e sport: qualche numero

L’Istat stima in un milione il numero dei disabili in Italia in età potenziale per fare sport (dai 6 ai 40 anni), ma sono solo 12 mila quelli che lo praticano come tesserati a federazioni (dato aggiornato al 2015), distribuiti su circa 1.800 società sportive. «Le persone con disabilità che praticano sport sono ancora molto poche: anche in Emilia-Romagna, per esempio, non si arriva al 10 per cento del totale», spiega Melissa Milani, presidente CIP Emilia-Romagna. «Cerchiamo di intercettare tutte le persone disabili per nascita o che lo sono diventate: purtroppo lo sport non è diffuso quanto vorremmo, né quanto vorremmo raggiungere». Non bastano, insomma, le attività di sensibilizzazione presso le scuole, i programmi portati avanti con gli assistiti Inail e quelli che prevedono la collaborazione con i centri di riabilitazione. Secondo Milani, le cause sono molteplici: «Il mondo delle società sportive non è pronto, ci sono ancora troppo poche competenze specifiche. E poi un allenamento aperto ai disabili ha un doppio costo, perché è necessaria la presenza di un tecnico a fianco dell’allenatore. Il nostro movimento si nutre di volontariato, e ne siamo orgogliosi, ma talvolta non basta. Questi tecnici devono avere una formazione specifica ed essere retribuiti, perché quello è il loro lavoro: sono poche le società che se lo possono permettere». Un altro problema riguarda il costo degli ausili professionali per praticare uno sport: in questo caso, Milani fa una distinzione tra chi diventa disabile per un incidente sul lavoro e chi no: perché i primi possono contare sul supporto di INAIL, i secondi no. «Gli strumenti specifici per una determinata attività sono ancora molto costosi: in pochi hanno i mezzi per sostenere la spesa. Noi cerchiamo di fare del nostro meglio, sempre alla ricerca di risorse economiche oltre che umane. E in regione è possibile praticare tutte le discipline proposte dal CONI».

Ma che sport praticano i 10 mila tesserati? In Emilia-Romagna i più diffusi sono nuototiro con l’arco (che da sempre prevede l’inclusione di persone con disabilità) e basket, disciplina trainante.

«Negli ultimi anni c’è una grossa richiesta per il calcio, come noto molto amato». Nel panorama nazionale, è la FISDIR (Federazione italiana sport disabilità intellettiva relazionale) la federazione che raccoglie più tesserati: oltre 5 mila appassionati di atletica leggera e nuoto, sci e tennis, pallacanestro e judo, bocce ed equitazione, ginnastica e calcio a 5. Dietro, la Federazione italiana sordi (FSSI) con circa 1.200 tesserati – numero in lenta ma costante diminuzione – e quella non vedenti (FISPIC). Tra le discipline più diffuse, il nuoto, la pallacanestro, il tennis e l’hockey su prato, sport quest’ultimo sempre più diffuso (tra 2014 e 2015 ha fatto segnare un +27% di tesserati e un +60% di società sportive).

Tratto da SM Italia 7/2016


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