L’ultimo viaggio del Grande Torino, il figlio del pilota: "Non fu errore di papà”

“Dopo 75 anni, il romanzo di Troiani e le nuove inchieste di Tuttosport sulla tragedia hanno aperto una porta che nessuno potrà più richiudere”
L’ultimo viaggio del Grande Torino, il figlio del pilota: "Non fu errore di papà”

"Avevo compiuto 7 anni da 9 giorni, quando papà morì a Superga. Purtroppo non ho neanche una foto insieme a lui. Mio padre stava spesso fuori, lo vedevo poco. Perennemente in viaggio, in missione: prima come pilota militare, durante la guerra, poi prestato all’aviazione civile. Ho due fratelli, entrambi più giovani di me. Papà adorava volare, era la sua passione. Nel 1937 conseguì il brevetto di pilota militare: di lì in poi cominciò a girare l’Italia, da una base aerea all’altra. Missioni in Eritrea, in Etiopia. Quindi la guerra mondiale. Combatté soprattutto nel Mediterraneo, sui cieli di Malta, del Nord Africa. Scontri a fuoco in cielo, bombardamenti, morte, medaglie, croci al merito e solenni encomi: la tragedia della guerra". Giancarlo Meroni resta assorto, seduto sul divano con al fianco il caro amico di una vita Luigi Troiani, il professore universitario e scrittore che ha dedicato al pilota Pierluigi e alla sua famiglia un coinvolgente e illuminante romanzo tra storia e denuncia, insieme avvincente e commovente, in certi passaggi anche poetico: “Il comandante restò sulla collina”, Morrone Editore.

Il mistero del G.212

È il libro che ha acceso la luce sulla serie di aerei caduti dello stesso modello di quello del Grande Torino, il G.212 (uno, precipitato a Roma, appena 25 giorni prima di Superga. Complessivamente, 8 tra il 1948 e il 1954 su un totale di 19 aerei prodotti). "Io parlavo e Luigi mi ascoltava, prendeva appunti, andava in giro per archivi e cercava vecchi ufficiali per indagare. Poi scriveva, scriveva: mi ha aiutato a tirare fuori tutto il dramma che portavo dentro, restituendomi tante cose di mio padre che non avevo potuto conoscere. Gli sono grato per quella che è stata la mia personale 'recherche' di un tempo purtroppo perduto". Alza gli occhi al soffitto. Sospira. "Mia moglie e io non stiamo granché bene di salute. Non credo che riusciremo ancora a compiere un viaggio". Dove andrebbe?, gli chiediamo. "A Superga. Non ci sono mai stato, non ce l’ho mai fatta, anche se a Torino ci sono stato mille volte e lì ho avuto storie d’amore. Un mio fratello sposò una torinese. Abbiamo parenti acquisiti a Torino. Andavo per incontrarli, ci andavo anche per lavoro. Non ho mai provato un senso di rifiuto per Torino. Ma la forza di salire a Superga, no, non l’ho mai trovata. Dopo la tragedia mia madre si era risposata e la memoria di mio papà, in famiglia, fu messa un po’ da parte. Quando uscii da quella forma di rimozione che intanto mi era sorta, anche come autodifesa, cominciai a cercare notizie su di lui. Aveva di sicuro molto coraggio, questo emergeva di continuo dalle mie ricerche".

Giancarlo Meroni ricorda il papà Pierluigi

"Prima il romanzo di Troiani, poi voi di Tuttosport... cioè le vostre inchieste giornalistiche della scorsa settimana sulle cause della tragedia e sulle indagini del 1949... sulle tre inchieste dell’epoca chissà da quanto tempo sparite... ma anche sulla relazione ministeriale svanita nel nulla in Senato... e sul fascicolo con la sentenza del giudice istruttore (non luogo a procedere; ndr) persino essa introvabile all’Archivio di Stato... insomma... avete aperto una porta che nessuno potrà mai più richiudere. Chi da oggi parlerà o scriverà di Superga dovrà fare riferimento anche al romanzo di Troiani e alle vostre inchieste giornalistiche: ed è la prima volta, in 75 anni. Nel ’49 han voluto chiudere tutto in fretta, voltare pagina. Ma ciò che mi dà più rabbia è la scomparsa di tutte le carte ufficiali: uno scandalo, una vergogna. Perché? Perché?". Pierluigi Meroni e Bianciardi, l’altro pilota, potrebbero essere stati traditi già soltanto da difettose comunicazioni da terra. "E senza dimenticare quegli altri 7 aerei caduti tra il 1948 e il ’54…". Ci mostra una giacca da militare del padre, con l’aquila della Regia Aeronautica e la corona dei Savoia sui bottoni. Poi un piccolo astuccio: dentro, una penna e una matita. "È ciò che di più caro ho di lui". Un legame di sangue che attraversa ricordi, materia e cieli. "Mio padre era anche istruttore di volo cieco, era uno dei piloti più stimati dell’Aeronautica. Era la prima volta che portava il Grande Torino: da Milano a Lisbona, quindi il tragico rientro". La moglie di Giancarlo, Mariana, rumena, attraversa lo spazio e regala un sorriso dolce. "Mi sono costruito la vita con le mie mani, mi sono laureato in Legge, sono stato responsabile internazionale della Cgil e della Lega delle cooperative". Un’altra pausa. "Abbiamo un figlio di 48 anni, Luca". Accarezza quella giacca di suo padre: "In casa da bambini la indossavamo, ci affascinava anche la sua sciabola". Gli chiediamo quanto peso abbia dovuto portare sulle spalle, in 75 anni. Il gravame psicologico di sapere suo padre ai comandi con l’amico copilota, anche lui ufficiale eroe di guerra. "Ho affrontato il mio destino con la forza di non nascondere nulla. Anche se dopo, negli anni, nessuno ci ha mostrato solidarietà, a parte l’Aeronautica Militare che mi ha offerto un posto in Accademia: ma io non avrei mai potuto sopportare la disciplina dei militari. Nessuno invitava alle cerimonie del 4 maggio noi parenti dei piloti e dell’equipaggio. Anche ai funerali: noialtri in un angolo, in disparte. E io lì, bambino di 7 anni, sperduto, con la mano nella mano di mia madre. Ma ciò che in questi decenni ha detto qualche figlio dei giocatori di Superga, per esempio Franco Ossola, mi ha donato molta consolazione: noi figli siamo tutti vittime di una stessa tragedia, ha ripetuto Franco con grande sensibilità. Lo ringrazio". "Io non rido spesso, faccio fatica a ridere. È stata così, la mia vita". "Con papà volai. Eravamo nel dopoguerra, mi portò con lui da Malpensa a Ciampino su un Dakota, un bimotore. Durante il volo mi spiegò il funzionamento degli strumenti, le luci, il sistema per virare. Era il mio eroe. E ancora adesso sono tanto orgoglioso di lui. Aveva 34 anni quando morì. Nella coda dell’areo, tra i bagagli non andati distrutti, trovarono un braccialetto d’oro in filigrana che aveva comprato a Lisbona per mamma. Cosa possano aver ritrovato del suo corpo, dopo lo schianto, non lo so. È sepolto a Milano, al monumentale, accanto a Francesco Cajani, il suo più caro amico pilota, morto in guerra. All’inizio del conflitto si erano promessi di essere sepolti insieme e le famiglie, che lo sapevano, li hanno accontentati".

Meroni e la passione per il Toro

"Sono diventato tifoso del Milan, da ragazzo. Ma sempre con una simpatia per il Toro. E negli Anni 60 ero felice che il Torino avesse un campione che si chiamava Meroni, proprio come papà. Non solo lo stesso cognome, anche l’evocazione dei nomi: quel ragazzo Luigi, e mio padre Pierluigi. Ma poi, anche per lui: la morte prematura, tragica, in quel modo… Non ci volevo credere". "Avrei voluto avere una giovinezza normale. E un padre come tutti. Papà desiderava volare più di ogni altra cosa. Il mio cuore mi dice che lui non sbagliò, quel giorno. L’aereo ebbe dei problemi. Oppure ci furono difetti nelle comunicazioni tra terra ed equipaggio sulla posizione del velivolo, per colpa delle scariche elettriche legate ai temporali di quel giorno: difetti che alla fine tradirono i piloti. Sento che ora, a 82 anni, avrei finalmente la forza di salire per la prima volta a Superga. Ma non posso più per motivi di salute, temo. E allora prendo in mano quell’astuccio con la sua penna e la sua matita. E faccio silenzio. E chiudo gli occhi. E penso a lui e a tutti loro su quell’aereo".

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